di Aurora Maria Romerio
Alcuni recenti episodi di cronaca, che hanno riguardato anche il settore dell’agricoltura (oggetto, quest’ultimo, nei primi giorni del mese di luglio scorso di una operazione di vigilanza in agricoltura sull’intero territorio nazionale che ha visto sul campo congiuntamente Carabinieri per la Tutela del lavoro e Ispettori dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro), richiedono di una breve riflessione sul fenomeno del lavoro nero.
COS’È
Il fenomeno del lavoro nero, chiamato anche “sommerso” o “irregolare”, attiene all’utilizzo di lavoratori subordinati presso la propria impresa senza aver preventivamente comunicato, ai sensi di legge, la loro assunzione al Centro per l’impiego. A ciò, spesso, si affianca l’adibizione del lavoratore irregolare a turni di lavoro “massacranti” e al mancato rispetto della normativa vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
L’irregolarità del rapporto di lavoro non incide, solamente, sulla posizione del singolo lavoratore il quale non ha copertura previdenziale e assicurativa, né alcuna tutela in caso di licenziamento (si pensi all’indennità di disoccupazione), ma ha, come facilmente immaginabile, risvolti in ambito contributivo e fiscale.
Vi è, poi, un ulteriore aspetto che riguarda non tanto l’osservanza della normativa, ma l’impatto che tale comportamento ha concretamente sulle altre imprese: la concorrenza sleale. La concorrenza sleale del lavoro sommerso costituisce un fattore di limitazione dello sviluppo che turba il mercato in cui operano le imprese rispettose della normativa. Si pensi solo al fatto che le imprese che non devono sopportare l’imposizione contributiva e fiscale per i lavoratori irregolari possono praticare prezzi più bassi, rispetto alle aziende virtuose con analoghe funzioni di produzione, le quali potrebbero anche perdere con il trascorrere del tempo la propria competitività.
Non si deve, poi, tralasciare che l’evasione fiscale tende a mantenere la distanza tra le aliquote fiscali pagate dalle imprese in regola e le imprese che evadono, dato che il mancato gettito rende difficile politiche fiscali espansive tramite la riduzione delle aliquote fiscali.
VARIE SFUMATURE
È possibile rintracciare anche un’altra sfumatura del lavoro irregolare: quello c.d. grigio. Esistono, infatti, rapporti di lavoro che sono formalmente regolari ma che assumono degli elementi in cui è possibile riscontrare delle irregolarità. Può accadere che ci sia una corretta comunicazione di assunzione ma con un contratto che copre soltanto parzialmente l’effettiva attività lavorativa; per esempio, un lavoratore che viene assunto con contratto part – time che invece è impiegato a tempo pieno.
Per dissuadere il ricorso a tali pratiche e nello specifico al lavoro nero, da censurarsi, comunque, anche in caso di lavoro “grigio”, è intervenuto il legislatore già nell’anno 2002 (D.L. n. 12/2002, art. 3), con una normativa specifica.
LA NORMATIVA
Il datore di lavoro che occupa personale “in nero” è soggetto alla c.d. maxisanzione. La sanzione scatta, è bene ricordarlo, allorquando a seguito di accesso ispettivo degli organi a ciò deputati (Ispettori INL, Inps, Inail, Carabinieri nucleo lavoro e Guardia di Finanza), vengono trovati lavoratori per i quali la comunicazione telematica di assunzione non è stata effettuata almeno ventiquattro ore prima della instaurazione del rapporto di lavoro.
L’irrogazione della maxisanzione, si badi bene, non esclude l’irrogazione di altre sanzioni come, ad esempio, quella relativa ai pagamenti ai lavoratori avvenuti con modalità non tracciabili, che conseguono, nella maggior parte dei casi ad un rapporto di lavoro irregolare.
La misura della maxisanzione è considerevole ed è commisurata ai giorni di effettivo impiego del lavoratore irregolare.
Recentemente, anche a seguito dei fatti cui si è accennato in apertura della presente esposizione, la misura della maxisanzione è stata inoltre aumentata del 30% e risulta determinata ai sensi dell’art. 1, comma 445 lett. d), della L. n. 145/2018, come modificato dall’art. 29, comma 3, del D.L. n. 19/2024. Attualmente la sanzione è quindi definita come di seguito:
1) da euro 1.950 a euro 11.700 per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore sino a trenta giorni di effettivo lavoro;
2) da euro 3.900 a euro 23.400 per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore da trentuno e sino a sessanta giorni di effettivo lavoro;
3) da euro 7.800 a euro 46.800 per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore oltre sessanta giorni di effettivo lavoro.
Le sanzioni sono ulteriormente aumentate del 20% in caso di impiego di:
– lavoratori stranieri ai sensi dell’art. 22, comma 12, del D.L-gs. n. 286/1998;
– minori in età non lavorativa (cioè coloro che non possono far valere dieci anni di scuola dell’obbligo e il compimento dei sedici anni);
– percettori del reddito di cittadinanza di cui al D.L. n. 4/2019 (conv. da L. n. 26/2019);
– lavoratori beneficiari dell’Assegno di inclusione o del Supporto per la formazione e il lavoro di cui al decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48 (conv. da L. n. 85/2023).
La lett. e) del comma 445 dell’art. 1 L n. 145/2018 ha altresì previsto che le maggiorazioni (attualmente del 30%) siano raddoppiate (passando, quindi, al 60%) ove, nei tre anni precedenti, il datore di lavoro sia stato destinatario di sanzioni amministrative o penali per i medesimi illeciti.
Di fronte a questo apparato sanzionatorio severo e recente-mente inasprito dobbiamo, però, chiederci se sarà questo ad impedire il ricorso ad una tale deprecabile pratica ovvero se non sia necessaria una presa di coscienza collettiva sul fatto che si è di fronte ad fenomeno quasi culturale che, evidentemente, deve essere gestito con rigore da tutti e con la cultura del diritto.
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